Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 17 aprile
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Seconda Parte)
2. Due differenti tipi di sensibilità
sono all’origine del senso di ciò che è ammirevole. La principale dicotomia per comprendere le radici
di senso che hanno dato forma alla sensibilità per la bellezza nella storia non
è quella tra apollineo e dionisiaco, ma la contrapposizione tra la sensibilità
pagana, interpretata principalmente dai filosofi del mondo greco-romano, e
la sensibilità ebraico-cristiana, viva già al tempo di Mosè tredici secoli
prima di Cristo.
La prima
presenta come caso speciale la kalokagathia, ossia la coincidenza di
buono e bello, ma ha per caratteristica precipua la costituzione nell’estetica di
una dimensione indipendente da quella relativa alle qualità morali: si può
essere esaltati pubblicamente per la bellezza del viso e del corpo ma riprovati
per i costumi, come nel caso dell’etera Frine, divenuta icona di perfezione e
vanto dei concittadini ma, per la sua disdicevole condotta morale, mortificata
col rifiuto di far ricostruire a sue spese le mura di Tebe facendovi incidere
il suo nome[1]. Un poeta greco poteva celebrare la bellezza e l’abilità
di un soldato, anche se poi lo condannava per essere divenuto un traditore: la
bellezza, intesa soprattutto quale aspetto o stile ammirabile, è ben distinta
dal giudizio morale.
Più in
generale, nella concezione classica che ci è stata tramandata dalle opere
letterarie si rileva una molteplicità di categorie parallele impiegate nel giudizio
dell’uomo, che può essere apprezzato perché nobile d’animo, o estlòs, perché
abile in un’arte o in una tecnica più degli altri, ed è detto areté, o
perché unisce qualità morali a capacità dell’ingegno, come l’agatos. Una
sintesi di qualità intese come bellezza interiore la si trova solo nelle
tesi di Platone, quale vertice ideale cui aspirare.
La seconda,
ossia la sensibilità cristiana, considera la bellezza, al pari di tutte
le doti psicofisiche, un dono di Dio che contribuisce a rendere
responsabilmente debitori nei confronti del Creatore e non titolari di un merito
che dà diritto a un vanto. In questo modo di sentire, la bellezza del viso e
del corpo, al pari di quella dello spirito, deve riportare chi la percepisce
all’Autore della vita. Al centro di questa concezione c’è, fin dal più antico
rapporto veterotestamentario del popolo eletto con JHWH, la purezza;
interpretata secondo la tradizione levitica e del fariseismo aureo soprattutto
in termini di stato privo di contaminazione e nella tradizione cristiana
divenuta espressione di essenza della oblatività totale. È infatti
considerato puro chi si dona completamente a Dio, vivendo per il prossimo
secondo la sua parola e rinunciando a ogni forma di compromesso col peccato: è
questa luce di purezza la fonte della bellezza cristiana.
Coloro che
hanno tratti del viso, forme del corpo, stile della figura, timbro vocale e
stile del movimento tali da indurre negli altri il desiderio di rimanere alla loro
presenza o rincontrarle, se non addirittura in grado di suscitare sentimenti evocati
dal fascino che emanano, e impiegano tale potere non per condurre al Signore
coloro che incontrano, ma per attrarli a sé, sedurli, secondo il senso
del verbo originariamente esclusivo per indicare l’agire di satana, sono
esecrabili per il cristiano, in quanto usano un dono ricevuto da Dio non per
onorarlo nel suo volere ma per tradirlo nel peccato.
Come è
facile osservare, si tratta di due modi di sentire dipendenti da due concezioni
tanto diverse da apparire inconciliabili in una loro interpretazione rigorosa.
E, di fatto, la mescolanza e il compromesso tra le due, presenti nel contesto
sociale e nell’intimo di molte persone, può ritenersi qualcosa di diverso, che tradisce
entrambe le sensibilità originarie risultando, pur nella frequente innocenza
degli interpreti che ne sono inconsapevoli per irriflessività, una sintesi
maldestra, incompiuta e per molti versi incoerente.
Nel mondo
pagano, come nel neopaganesimo diffuso nelle società contemporanee, è bello ciò
che piace alla vista, che soddisfa il senso estetico e l’aspettativa edonica. Per
il pagano essere bello è piacere all’altro, per il cristiano è piacere a Dio.
Per questo la bellezza del corpo, e del corpo di coloro che sono nudi, in greco
gymnos, non meraviglia che sia tipica di realtà
in cui si vive del giudizio sociale, ispirato alle preferenze originate da
desideri istintivi e conforme al costume imperante. Così come non meraviglia
che il cristiano all’incontro col divino nella propria coscienza tralasci il
corpo e metta a nudo l’anima, ossia le astrazioni di vizi e virtù, separandosi
dalla carne, che non si identifica con il corpo tout court, come abbiamo
visto in Gregorio di Nissa[2], ma con il corpo che desidera per sé; quella
carne che “non giova a nulla”, come ammonisce il Vangelo.
Credo che
il modo di intendere la bellezza possa dirci molto di una persona e di una
cultura, e se forse è eccessivo ritenere che dalla concezione della bellezza si
possa giudicare una civiltà, senza dubbio è lecito dedurne spunti di riflessione
se non elementi di giudizio[3].
Se si
confronta la concezione che ispirava i criteri assunti per giudicare un popolo nell’Atene
del IV-III secolo a.C. con quella dei Romani all’alba dell’era cristiana, appare
evidente che l’importanza data dai Greci alla considerazione del progresso nel
sapere e nell’arte, come alla raffinatezza dello spirito, cedeva il passo alla
stima per la ragion pratica politica, militare ed economica dell’Impero italico.
Alla luce
di questa riflessione possiamo dire che le ragioni della bellezza sono in un
certo senso “ragioni del cuore” se, adottando l’espressione di Blaise Pascal, intendiamo
per “cuore” qualcosa d’altro rispetto alla ragione corrente, che non tanto
diversamente dal tempo dei Romani oggi impone l’uso prioritario della cognizione
secondo la materialità e la strumentalità dell’utile. Tuttavia,
se non si rimane ingenuamente statici a subire il valore semantico dei termini
come se fosse un riferimento oggettivo e compiuto di conoscenza materiale e non
un’approssimazione di sostanza necessaria alla convenzione comunicativa, si può
riflettere sulla ragione, scoprendo facilmente che la sua
contrapposizione al “cuore” è un artificio dialettico, non una dicotomia della
realtà. È un gioco basato sul prototipo dell’opposizione del buono al cattivo,
che ha trovato terreno fertile nell’ideologia romantica ottocentesca ed è
riuscito a entrare nella cultura popolare del secolo successivo, passando
indenne attraverso le periodiche mode nichiliste e sopravvivendo nel mélange
attuale.
Ma è
proprio per il campo semantico intercettato dall’uso in senso figurato
del termine cuore che ritorna con evidenza il dualismo tra concezione
pagana e cristiana. Scontato un ristretto margine di sovrapposizione, per gli
antichi il cuore è l’ardimento che ignora la prudenza, è la forza
temperante che consente di dominare le emozioni estreme senza perdere la forma[4], è l’organo che pone al servizio dei sentimenti il
coraggio inteso come forza, che ha sede nel fegato, ed è spesso implicato in
ogni emozione che provoca batticuore. Nella cultura di tradizione cristiana il cuore
indica empatia, generosità, gratuità, pietà, assenza di calcolo, sincerità di
sentimenti, autenticità di spirito, profondità verace e completa dell’essere[5].
3. Seneca è più vicino alla sensibilità
cristiana o a quella pagana? Assimilare, come oggi si fa spesso, l’insegnamento
di Seneca a quello cristiano vuol dire prescindere dal senso attribuito alla
vita e dallo scopo che l’uomo si prefigge nell’orientare la propria esistenza,
perché in questa radice di significato e di intenzione appare evidente l’inconciliabile
disparità.
Il senso
dell’esistenza del cristiano è infatti una prova d’amore per il Creatore che lo
ha generato, compiuta attraverso l’oblazione di sé per il prossimo e vissuta
quale fine nel quotidiano.
Il senso
della vita del filosofo di Cordova non attiene all’appartenenza a Dio dell’essere,
e il suo scopo è la ricerca della felicità attraverso la saggezza.
Non è
dunque fondato identificare la sapienza o Sophia, che i cristiani
d’Oriente personificano in Cristo stesso, con la saggezza o phronesis
di Seneca. E, se si comprende la suggestione suscitata dai punti di contatto
tra le due dottrine, l’accostamento della spiritualità cristiana allo stoicismo,
in seno al quale si sviluppa il pensiero del filosofo, è sicuramente una
forzatura che enfatizza alcuni aspetti comportamentali a discapito delle differenze
di sostanza. Alcuni fra i maggiori studiosi di Lucio Anneo
Seneca, detto anche “il Giovane” per distinguerlo dall’omonimo padre cultore di
retorica, hanno spiegato molti aspetti del suo pensiero riportandolo alla
matrice della cultura ellenistica e rilevando i caratteri condivisi con scuole
di pensiero greche di lunga tradizione.
Ma a
questo punto mi accorgo di aver omesso una motivazione, probabilmente necessaria
per molti, e non mi stupisco che qualche lettore si chieda e mi chieda perché
discuto di Seneca.
La ragione
è nella premessa pubblicata con la prima parte la scorsa settimana[6], nella quale si giustificano questi scritti con l’intento
di rendere più chiaro il fondamento culturale delle tesi proposte in Ancora
qualche parola sulle ragioni della bellezza[7] e dato per implicito quale studio condiviso con i
soci: Seneca è fra gli autori di riferimento al seminario permanente sull’Arte
del Vivere, dove è stato presentato anche quale portatore di una concezione
di bellezza diversa tanto da quella platonica quanto da quella cristiana.
Seneca, che
è l’autore latino più letto e accostabile solo a Platone fra gli antichi
rimasti di attualità culturale, ha avuto un destino di periodici abbandoni e
riscoperte, con un successo sorprendente e non facile da spiegare anche da
parte dei suoi maggiori studiosi[8], ma che essenzialmente possiamo ricondurre alla
chiarezza del messaggio, all’illustrazione dei pensieri con grande efficacia esplicativa
secondo il fine pedagogico-didattico di molti suoi scritti, al fondamento
razionale di tutti i suoi principi e alla proposta di giungere alla felicità
della saggezza attraverso un programma semplice, che richiede solo volontà e
perseveranza per progredire attraverso cinque stadi. Infine, l’incoraggiante
umiltà di un maestro di saggezza che discute dei propri limiti e già in età
matura si colloca ancora al terzo stadio nella via per diventare saggio.
Seneca appare
sempre moderno e attuale ad ogni epoca perché affronta con linguaggio di verità
i problemi della vita interiore che riguardano quegli universali pressocché
immutabili appartenenti alla più intima natura dell’uomo.
Due frasi
di Seneca, rimaste nel patrimonio delle citazioni più comuni, illustrano bene
due pregi all’origine del successo del suo pensiero: Si vis omnia tibi subicere te subice rationi (“Se vuoi
sottomettere ogni cosa a te sottomettiti alla ragione”), ossia la ragione come
faro, e Nihil sapientiae odiosus
acumine nimio (“Nulla è
più odioso alla sapienza dell’acume eccessivo”, ossia del “formalismo cavilloso”),
ovvero un inno al valore della sostanza.
Seneca
concepisce la filosofia quale “terapia per i mali dell’anima” rimanendo in una
tradizione che possiamo ricondurre alla concezione espressa da Platone nella
celebre Apologia di Socrate, in cui il filosofo condannato a bere la
cicuta presenta la “cura dell’anima” come cuore del suo messaggio etico.
Utile per
comprendere il senso di cura dell’anima è l’esempio del giovinetto Carmide
narrato da Platone, che ero solito impiegare nella lezione introduttiva sull’origine
dell’approccio psicoterapeutico[9]. In breve, Carmide ha un gran mal di testa che
nessuno riesce a guarire, ma Socrate dichiara di possedere il rimedio efficace:
un farmaco, ossia un’erba medica, a cui si doveva associare un incantesimo,
senza del quale l’erba non avrebbe potuto agire. L’erba, infatti, poteva agire
sulla parte, ma certi mali si curano solo agendo sull’intero dell’uomo,
costituito da corpo e anima, e la cura dell’anima richiede un incantesimo.
Ma cos’è questo incantesimo? Sono le belle parole capaci di far mutare l’animo.
E Platone precisa che proprio questo è la filosofia: una medicina dello spirito
capace di generare equilibrio, temperanza e, “quando questa sia nata e si sia
radicata, allora è facile ridare salute alla testa e a tutte le parti del corpo”[10].
Epicuro
più di ogni altro definisce con precisione i concetti-guida del pensiero nella
cultura ellenistica e sostiene che la filosofia debba essere una cura dell’anima
e che il fine di tale cura consista nel produrre la vita felice[11]. Tutte le scuole dell’età ellenistica concordano nell’affermare
che lo scopo del filosofare sia il raggiungimento della felicità[12]. In particolare, scrive Martha Nussbaum:
“Per Epicurei e Scettici la centralità del fine etico, cioè il conseguimento di
un certo genere di vita, è molto più ovvia di quanto non lo sia per gli Stoici.
Ma per tutte e tre le scuole la filosofia consiste soprattutto nell’arte del
vivere, e dedicarsi ad essa senza essere ancorati nell’impegno del buon
vivere, risulta attività vuota e vana”[13].
È questa
la concezione dalla quale prende le mosse Seneca, costituitosi medico dei
mali dell’anima, che aiuta l’uomo a modificare le valutazioni che dà
delle cose, attraverso un percorso di conoscenza. L’obiettivo è far mutare
l’atteggiamento spontaneo dell’uomo rispetto ai valori prevalenti nel mondo
circostante, per comprendere quali cose sono realmente beni e quali sono
invece mali; infatti, il filosofo di Cordova sostiene che le malattie
dell’anima consistono nel pensiero rivolto per ignoranza o intemperanza alle
cose che sono mali, e le passioni provocano malattie nel caso vengano trascurate
e si cronicizzino.
Nonostante
la molteplicità dei contenuti espressi nella produzione letterale, teatrale,
filosofica e oratoria da Seneca, è lecito chiedersi se tutto il suo pensiero si
possa ricondurre ad un’idea di fondo, secondo il caustico aforisma di Bergson: “Un
filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una cosa sola”[14]. E questa cosa la troviamo nelle Lettere a
Lucilio:
“Ma qual è
questo bene? Te lo dirò: un’anima libera, nobile, che sottomette le altre cose
a sé, senza lasciarsi sottomettere da nessuna”[15].
La
filosofia per Seneca non è un’arte popolare che possa essere facilmente
esibita, ostentata e condivisa, ma un lungo esercizio interiore costituito da
fatti più che da parole. Non è questa la sede per fare un compendio esaustivo della
sua filosofia ma, cercando di rendere evidente al giudizio del lettore gli
elementi caratterizzanti, seguo Giovanni Reale nel riportare il suo “credo
supremo” espresso nelle Questioni naturali e consistente nel non cercare
ciò che gli uomini hanno fatto nella loro storia, “bensì ciò che l’uomo deve
fare per essere veramente uomo, e dunque felice”[16].
Le differenze
con la spiritualità cristiana che emergono da questa sintesi sono tante, basti solo
notare la centralità del messaggio di amore oblativo contenuto nel comandamento
nuovo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi
ho amati” (Gv 15, 12) o alla finalità ultraterrena dell’agire umano chiaramente
definita da Gesù Cristo: “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà;
ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,
35), e accostarle alla ricerca della felicità di questa vita come fine
ultimo della filosofia del saggio.
Ma c’è un
elemento di fondo all’origine di una sensazione che ho provato fin da ragazzo
nel leggere Seneca e poi, senza ancora averla chiarita a me stesso, l’ho
condivisa da adulto con altri partecipanti al nostro seminario, prima ancora di
analizzarla e comprenderla nel suo senso di “ostacolo per una disposizione d’animo
cristiana”. E mi è sembrato che tale aspetto emergesse come evidenza dalla
riflessione su documenti e racconti che illustrano frammenti biografici,
atteggiamenti e scelte nella vita pubblica e privata. Leggendo le testimonianze
sulle vicende e le circostanze che hanno determinato, dopo la sua fortuna, la
condanna a morte mediante suicidio, si coglie qualcosa in termini di
appartenenza al mondo, inteso in senso giovanneo, che forse attiene alla
peculiarità dello Zeitgeist, dello spirito del tempo e, in un certo senso,
all’influenza su di lui della follia al potere.
Consideriamo
qui solo gli eventi salienti che precedono il 62 d.C., l’annus
horribilis di Seneca[17] che viveva alla corte del quinto imperatore romano,
asceso al trono a soli diciassette anni: Nero Claudius
Caesar Augustus Germanicus, alla nascita Lucio
Domizio Enobarbo, passato alla storia come Nerone[18].
Nerone si
era innamorato di Poppea, la bella e ambiziosa moglie del suo amico Salvio
Ottone, che cercava di indurlo a ripudiare Ottavia, la consorte appena ventenne
protetta dalla stessa madre dell’imperatore, Agrippina. Esistono versioni
contrastanti di ciò che accadde fra madre e figlio[19], il fatto certo è che Nerone incarica il comandante
di flotta Aniceto di uccidere Agrippina fingendo la morte in un naufragio. Il
piano fallisce e la donna, pur ferita, si salva.
Nerone allora
convoca Seneca e Burro, amico e sodale del filosofo, per aver consiglio sul da
farsi e ottenere la complicità morale e politica di due personaggi rispettati
dal popolo, per compiere il più orrendo dei crimini: il matricidio[20]. Tacito narra che Nerone “fuori di sé dalla paura
grida che ella sarebbe giunta avida di vendetta” e che “Seneca si riprese per
primo e, guardando Burro, gli chiese se si dovesse dare ai soldati l’ordine di
ucciderla”[21].
A questo
punto si ha quello che Giovanni Reale definisce “il periodo più incerto e
confuso della vita di Seneca”[22], dopodiché si giunge agli avvenimenti ben
documentati dell’anno 62.
Burro
viene fatto uccidere da Nerone per avvelenamento, fingendo la somministrazione
di una sostanza curativa di un “gonfiore di gola”; Seneca allora cerca di
dimettersi per sfuggire alla morte e si offre di restituire all’imperatore
tutti i beni da lui ricevuti, ma gli viene opposto un rifiuto. Al posto di
Seneca e Burro è nominato Tigellino, un uomo senza scrupoli che si rende
complice di tutti i crimini del sovrano per ottenere ricchezze e potere. In
quei giorni furono trucidati Silla e Plauto. Nerone, per affrettare le nozze con
Poppea, ripudiò Ottavia con l’accusa di sterilità, ma poi, non contento, decise
di condannarla a morte.
Per poterla
condannare inventò come capo di accusa che si era procurata degli aborti,
dimenticando di averla dichiarata sterile, e poi aggiunse che aveva sedotto
Aniceto. Così la ragazza appena ventenne, come ci ricorda Tacito, viene
barbaramente uccisa: “… le incidono le vene delle gambe e delle braccia e,
poiché il sangue agghiacciato dallo spavento goccia con troppa lentezza, la
soffocano tra i vapori di un bagno caldissimo. Aggiungono anzi una crudeltà più
atroce: la sua testa fu tagliata e portata a Roma, e Poppea volle vederla”[23].
Calpurnio Pisone
organizzò e diresse una congiura per liberarsi del tiranno, ma un infiltrato
denunciò il complotto e fece a Nerone il nome di Seneca, che fu condannato a
morte. Il filosofo si difese sostenendo di non aver preso parte alla congiura
ma, secondo numerosi storici, il complotto fu solo una montatura ordita dallo
stesso imperatore per poterlo eliminare legalmente.
Esposti in
estrema sintesi i fatti storici, ritorno alla mia sensazione circa l’uomo e a al
suo scendere a patti con la propria coscienza. Non sapremo mai se solo per timore
o anche per conservare i privilegi come volevano i suoi detrattori, ma un fatto
è certo: i maggiori studiosi di Seneca dell’epoca recente sono severi con lui,
nonostante un tentativo di difesa abbozzato da Concetto Marchesi. Giovanni
Reale così si esprime: “In ogni caso, non ci sono dubbi: egli si è reso correo
del matricidio deciso da Nerone”[24].
La
capacità di rinuncia, il rigore stoico, l’onestà intellettuale, il desiderio di
guarire i mali dell’anima di coloro che incontrava, non sono sufficienti a
renderlo vicino alla sensibilità cristiana, perché Seneca non ha una concezione
di contrapposizione inconciliabile tra il male e il bene, e considera il male una
parte della natura dell’uomo con la quale tutti scendiamo a patti. Non c’è il
peccato per lui, la morte dell’anima: il cristiano sbaglia per debolezza, ma
chiede perdono a Dio al quale sente di dover rendere conto. Il percorso di
crescita nella saggezza concepito da Seneca prevede un progressivo mutamento di
mentalità e un’evoluzione del modo di sentire, con un cambiamento di
atteggiamento nei confronti della vita e del prossimo, riducendo progressivamente
i compromessi, ma solo allo scopo di evitare sofferenze psichiche in quel mondo
al quale sente profondamente di appartenere.
Riflettendo
su questo punto credo di aver compreso cosa manchi alla sensibilità di Seneca
per essere accostata a quella cristiana: la purezza.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-17 aprile 2021
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Cfr. Note e Notizie 06-03-21
Ritrovare nei segni le ragioni della bellezza, nel paragrafo “6”.
[2] Il padre della chiesa Gregorio di Nissa
nel Perì Parthenías o De Virginitate, scritto nel 371 d.C., sovverte l’ordine di rappresentazione convenzionale del
peccato originale con il corpo quale fomite della disobbedienza, spostando l’attenzione
sulla psiche: nel paradiso terrestre “L’uomo era nudo, privo di vesti di pelle
morta, guardava senza vergogna il volto di Dio” perché la sua coscienza era in
continuità con quella del Signore. Non è il corpo in quanto tale l’origine del
peccato, ma la carne (sarx) che desidera per
sé e invade col suo desiderio una mente che si è già allontanata da Dio,
trasgredendo l’ordine di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza.
In altri termini, riporta alla sostanza della narrazione metaforica biblica del
peccato di disobbedienza e superbia, consistente nell’arrogarsi l’arbitrio di
giudicare indipendentemente dal volere divino e tradirlo per assecondare l’istinto.
(Cfr. Note e Notizie 06-03-21 Ritrovare nei segni le ragioni della bellezza).
[3] Naturalmente mi riferisco a
giudizi fondati sui principi elementari e mai discussi di ragione ed evidenza,
oppure sul metro storico dell’intersoggettività condivisa prossima all’oggettività,
consapevole di quanto sia di moda l’esercizio mediatico della delegittimazione
di ogni parametro di giudizio. Infatti,
in una realtà come quella attuale che non richiede di motivare la distruttività
e spesso la assume come valore, si può sempre obiettare circa la concezione del
giudicante e finire nel gioco logico della catena dei “giudici dei giudici” (o “critici
dei critici”, nella suggestiva resa del greco antico), con un regresso
potenzialmente infinito o in diallelo circolare.
[4] Ulisse è l’eroe che soffre
nel cuore, secondo Omero, ossia che ha un cuore forte per resistere al
dolore senza manifestarlo con espressioni che altererebbero la sua immagine
presso gli altri (“lo stile è l’uomo”) fondamentale per i pagani.
[5]
Si pensi, in proposito, al
concetto di “conversione del cuore” secondo Sant’Agostino.
[6] Note e Notizie 10-04-21 Specchio
della psiche e della civiltà.
[7] Note e Notizie 06-03-21
Ancora qualche parola sulle ragioni della bellezza.
[8] Cfr. Giovanni Reale, La filosofia
di Seneca come terapia dei mali dell’anima, p. 7, Bompiani, Milano 2004.
[9] Dopo aver descritto l’affascinante
rito arcaico del Santuario di Trophonios a Lebadea, proponevo per l’epoca aurea questo esempio
platonico.
[10] Platone, Carmide, 157
A-B, in Platone – tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani,
Milano 2001.
[11] Epicuro, frammento 219 (tr. It. I. Ramelli),
Bompiani, Milano 2002.
[12] Cfr. Giovanni Reale, op. cit.,
p. 17.
[13] Matha Nussbaum, Terapia del desiderio, teoria e pratica nell’etica
ellenistica, p. 22, Vita e Pensiero, Milano 1998.
[14] Bergson, La pensée et le mouvant, p. 122, Paris 1934.
[15] Seneca, Lettere a Lucilio,
124, 11-12 in Tutte le Opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.
[16] Cfr. Giovanni Reale, op. cit.,
p. 166.
[17] Ricordiamo che, a trent’anni
dalla morte di Gesù Cristo, i cristiani erano ancora poco conosciuti nel mondo
romano e l’unica loro traccia scritta in quegli anni era il Vangelo di Matteo,
di cui circolavano alcune copie in aramaico.
[18] Non è possibile, né serio
azzardare diagnosi psichiatriche su tracce biografiche di personaggi storici,
ma, se sono vere le testimonianze dell’epoca, la presenza di un grave disturbo
mentale nel giovane imperatore è certa.
[19] La versione di Cluvio, ripresa da Tacito,
secondo cui Agrippina volesse commettere un incesto seducendo il figlio per
impedirgli di avere Poppea, sa troppo delle classiche calunnie diffuse dallo
stesso Nerone per infangare e screditare le sue vittime.
[20] Ricordiamo che presso gli
antichi i delitti mostruosi come questo potevano essere attribuiti alla volontà
degli dei, come accade per Eutifrone, parricida che
nel dialogo platonico incontra Socrate accusato di corrompere con le sue idee la
gioventù. L’uccisore del padre, ricco e potente, viene assolto, mentre Socrate è
condannato. Sarà solo grazie all’entrata della cultura cristiana nel diritto
romano, con i Codici Giustinianei, che la responsabilità penale diventa
individuale.
[21] Tacito, Annali, XIV 2-3 e
7, trad. di A. Resta Barrile, Zanichelli, Bologna 1986.
[22] Giovanni Reale, La filosofia
di Seneca come terapia dei mali dell’anima, p. 78, Bompiani, Milano 2004.
[23] Tacito, Annali, XIV 64,
op. cit.
[24] Giovanni Reale, op. cit., p. 78.