Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 17 aprile 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Seconda Parte)

 

2. Due differenti tipi di sensibilità sono all’origine del senso di ciò che è ammirevole. La principale dicotomia per comprendere le radici di senso che hanno dato forma alla sensibilità per la bellezza nella storia non è quella tra apollineo e dionisiaco, ma la contrapposizione tra la sensibilità pagana, interpretata principalmente dai filosofi del mondo greco-romano, e la sensibilità ebraico-cristiana, viva già al tempo di Mosè tredici secoli prima di Cristo.

La prima presenta come caso speciale la kalokagathia, ossia la coincidenza di buono e bello, ma ha per caratteristica precipua la costituzione nell’estetica di una dimensione indipendente da quella relativa alle qualità morali: si può essere esaltati pubblicamente per la bellezza del viso e del corpo ma riprovati per i costumi, come nel caso dell’etera Frine, divenuta icona di perfezione e vanto dei concittadini ma, per la sua disdicevole condotta morale, mortificata col rifiuto di far ricostruire a sue spese le mura di Tebe facendovi incidere il suo nome[1]. Un poeta greco poteva celebrare la bellezza e l’abilità di un soldato, anche se poi lo condannava per essere divenuto un traditore: la bellezza, intesa soprattutto quale aspetto o stile ammirabile, è ben distinta dal giudizio morale.

Più in generale, nella concezione classica che ci è stata tramandata dalle opere letterarie si rileva una molteplicità di categorie parallele impiegate nel giudizio dell’uomo, che può essere apprezzato perché nobile d’animo, o estlòs, perché abile in un’arte o in una tecnica più degli altri, ed è detto areté, o perché unisce qualità morali a capacità dell’ingegno, come l’agatos. Una sintesi di qualità intese come bellezza interiore la si trova solo nelle tesi di Platone, quale vertice ideale cui aspirare.

La seconda, ossia la sensibilità cristiana, considera la bellezza, al pari di tutte le doti psicofisiche, un dono di Dio che contribuisce a rendere responsabilmente debitori nei confronti del Creatore e non titolari di un merito che dà diritto a un vanto. In questo modo di sentire, la bellezza del viso e del corpo, al pari di quella dello spirito, deve riportare chi la percepisce all’Autore della vita. Al centro di questa concezione c’è, fin dal più antico rapporto veterotestamentario del popolo eletto con JHWH, la purezza; interpretata secondo la tradizione levitica e del fariseismo aureo soprattutto in termini di stato privo di contaminazione e nella tradizione cristiana divenuta espressione di essenza della oblatività totale. È infatti considerato puro chi si dona completamente a Dio, vivendo per il prossimo secondo la sua parola e rinunciando a ogni forma di compromesso col peccato: è questa luce di purezza la fonte della bellezza cristiana.

Coloro che hanno tratti del viso, forme del corpo, stile della figura, timbro vocale e stile del movimento tali da indurre negli altri il desiderio di rimanere alla loro presenza o rincontrarle, se non addirittura in grado di suscitare sentimenti evocati dal fascino che emanano, e impiegano tale potere non per condurre al Signore coloro che incontrano, ma per attrarli a sé, sedurli, secondo il senso del verbo originariamente esclusivo per indicare l’agire di satana, sono esecrabili per il cristiano, in quanto usano un dono ricevuto da Dio non per onorarlo nel suo volere ma per tradirlo nel peccato.

Come è facile osservare, si tratta di due modi di sentire dipendenti da due concezioni tanto diverse da apparire inconciliabili in una loro interpretazione rigorosa. E, di fatto, la mescolanza e il compromesso tra le due, presenti nel contesto sociale e nell’intimo di molte persone, può ritenersi qualcosa di diverso, che tradisce entrambe le sensibilità originarie risultando, pur nella frequente innocenza degli interpreti che ne sono inconsapevoli per irriflessività, una sintesi maldestra, incompiuta e per molti versi incoerente.

Nel mondo pagano, come nel neopaganesimo diffuso nelle società contemporanee, è bello ciò che piace alla vista, che soddisfa il senso estetico e l’aspettativa edonica. Per il pagano essere bello è piacere all’altro, per il cristiano è piacere a Dio. Per questo la bellezza del corpo, e del corpo di coloro che sono nudi, in greco gymnos, non meraviglia che sia tipica di realtà in cui si vive del giudizio sociale, ispirato alle preferenze originate da desideri istintivi e conforme al costume imperante. Così come non meraviglia che il cristiano all’incontro col divino nella propria coscienza tralasci il corpo e metta a nudo l’anima, ossia le astrazioni di vizi e virtù, separandosi dalla carne, che non si identifica con il corpo tout court, come abbiamo visto in Gregorio di Nissa[2], ma con il corpo che desidera per sé; quella carne che “non giova a nulla”, come ammonisce il Vangelo.

Credo che il modo di intendere la bellezza possa dirci molto di una persona e di una cultura, e se forse è eccessivo ritenere che dalla concezione della bellezza si possa giudicare una civiltà, senza dubbio è lecito dedurne spunti di riflessione se non elementi di giudizio[3].

Se si confronta la concezione che ispirava i criteri assunti per giudicare un popolo nell’Atene del IV-III secolo a.C. con quella dei Romani all’alba dell’era cristiana, appare evidente che l’importanza data dai Greci alla considerazione del progresso nel sapere e nell’arte, come alla raffinatezza dello spirito, cedeva il passo alla stima per la ragion pratica politica, militare ed economica dell’Impero italico.

Alla luce di questa riflessione possiamo dire che le ragioni della bellezza sono in un certo senso “ragioni del cuore” se, adottando l’espressione di Blaise Pascal, intendiamo per “cuore” qualcosa d’altro rispetto alla ragione corrente, che non tanto diversamente dal tempo dei Romani oggi impone l’uso prioritario della cognizione secondo la materialità e la strumentalità dell’utile. Tuttavia, se non si rimane ingenuamente statici a subire il valore semantico dei termini come se fosse un riferimento oggettivo e compiuto di conoscenza materiale e non un’approssimazione di sostanza necessaria alla convenzione comunicativa, si può riflettere sulla ragione, scoprendo facilmente che la sua contrapposizione al “cuore” è un artificio dialettico, non una dicotomia della realtà. È un gioco basato sul prototipo dell’opposizione del buono al cattivo, che ha trovato terreno fertile nell’ideologia romantica ottocentesca ed è riuscito a entrare nella cultura popolare del secolo successivo, passando indenne attraverso le periodiche mode nichiliste e sopravvivendo nel mélange attuale.

Ma è proprio per il campo semantico intercettato dall’uso in senso figurato del termine cuore che ritorna con evidenza il dualismo tra concezione pagana e cristiana. Scontato un ristretto margine di sovrapposizione, per gli antichi il cuore è l’ardimento che ignora la prudenza, è la forza temperante che consente di dominare le emozioni estreme senza perdere la forma[4], è l’organo che pone al servizio dei sentimenti il coraggio inteso come forza, che ha sede nel fegato, ed è spesso implicato in ogni emozione che provoca batticuore. Nella cultura di tradizione cristiana il cuore indica empatia, generosità, gratuità, pietà, assenza di calcolo, sincerità di sentimenti, autenticità di spirito, profondità verace e completa dell’essere[5].

 

3. Seneca è più vicino alla sensibilità cristiana o a quella pagana? Assimilare, come oggi si fa spesso, l’insegnamento di Seneca a quello cristiano vuol dire prescindere dal senso attribuito alla vita e dallo scopo che l’uomo si prefigge nell’orientare la propria esistenza, perché in questa radice di significato e di intenzione appare evidente l’inconciliabile disparità.

Il senso dell’esistenza del cristiano è infatti una prova d’amore per il Creatore che lo ha generato, compiuta attraverso l’oblazione di sé per il prossimo e vissuta quale fine nel quotidiano.

Il senso della vita del filosofo di Cordova non attiene all’appartenenza a Dio dell’essere, e il suo scopo è la ricerca della felicità attraverso la saggezza.

Non è dunque fondato identificare la sapienza o Sophia, che i cristiani d’Oriente personificano in Cristo stesso, con la saggezza o phronesis di Seneca. E, se si comprende la suggestione suscitata dai punti di contatto tra le due dottrine, l’accostamento della spiritualità cristiana allo stoicismo, in seno al quale si sviluppa il pensiero del filosofo, è sicuramente una forzatura che enfatizza alcuni aspetti comportamentali a discapito delle differenze di sostanza. Alcuni fra i maggiori studiosi di Lucio Anneo Seneca, detto anche “il Giovane” per distinguerlo dall’omonimo padre cultore di retorica, hanno spiegato molti aspetti del suo pensiero riportandolo alla matrice della cultura ellenistica e rilevando i caratteri condivisi con scuole di pensiero greche di lunga tradizione.

Ma a questo punto mi accorgo di aver omesso una motivazione, probabilmente necessaria per molti, e non mi stupisco che qualche lettore si chieda e mi chieda perché discuto di Seneca.

La ragione è nella premessa pubblicata con la prima parte la scorsa settimana[6], nella quale si giustificano questi scritti con l’intento di rendere più chiaro il fondamento culturale delle tesi proposte in Ancora qualche parola sulle ragioni della bellezza[7] e dato per implicito quale studio condiviso con i soci: Seneca è fra gli autori di riferimento al seminario permanente sull’Arte del Vivere, dove è stato presentato anche quale portatore di una concezione di bellezza diversa tanto da quella platonica quanto da quella cristiana.

Seneca, che è l’autore latino più letto e accostabile solo a Platone fra gli antichi rimasti di attualità culturale, ha avuto un destino di periodici abbandoni e riscoperte, con un successo sorprendente e non facile da spiegare anche da parte dei suoi maggiori studiosi[8], ma che essenzialmente possiamo ricondurre alla chiarezza del messaggio, all’illustrazione dei pensieri con grande efficacia esplicativa secondo il fine pedagogico-didattico di molti suoi scritti, al fondamento razionale di tutti i suoi principi e alla proposta di giungere alla felicità della saggezza attraverso un programma semplice, che richiede solo volontà e perseveranza per progredire attraverso cinque stadi. Infine, l’incoraggiante umiltà di un maestro di saggezza che discute dei propri limiti e già in età matura si colloca ancora al terzo stadio nella via per diventare saggio.

Seneca appare sempre moderno e attuale ad ogni epoca perché affronta con linguaggio di verità i problemi della vita interiore che riguardano quegli universali pressocché immutabili appartenenti alla più intima natura dell’uomo.

Due frasi di Seneca, rimaste nel patrimonio delle citazioni più comuni, illustrano bene due pregi all’origine del successo del suo pensiero: Si vis omnia tibi subicere te subice rationi (“Se vuoi sottomettere ogni cosa a te sottomettiti alla ragione”), ossia la ragione come faro, e Nihil sapientiae odiosus acumine nimio (“Nulla è più odioso alla sapienza dell’acume eccessivo”, ossia del “formalismo cavilloso”), ovvero un inno al valore della sostanza.

Seneca concepisce la filosofia quale “terapia per i mali dell’anima” rimanendo in una tradizione che possiamo ricondurre alla concezione espressa da Platone nella celebre Apologia di Socrate, in cui il filosofo condannato a bere la cicuta presenta la “cura dell’anima” come cuore del suo messaggio etico.

Utile per comprendere il senso di cura dell’anima è l’esempio del giovinetto Carmide narrato da Platone, che ero solito impiegare nella lezione introduttiva sull’origine dell’approccio psicoterapeutico[9]. In breve, Carmide ha un gran mal di testa che nessuno riesce a guarire, ma Socrate dichiara di possedere il rimedio efficace: un farmaco, ossia un’erba medica, a cui si doveva associare un incantesimo, senza del quale l’erba non avrebbe potuto agire. L’erba, infatti, poteva agire sulla parte, ma certi mali si curano solo agendo sull’intero dell’uomo, costituito da corpo e anima, e la cura dell’anima richiede un incantesimo. Ma cos’è questo incantesimo? Sono le belle parole capaci di far mutare l’animo. E Platone precisa che proprio questo è la filosofia: una medicina dello spirito capace di generare equilibrio, temperanza e, “quando questa sia nata e si sia radicata, allora è facile ridare salute alla testa e a tutte le parti del corpo”[10].

Epicuro più di ogni altro definisce con precisione i concetti-guida del pensiero nella cultura ellenistica e sostiene che la filosofia debba essere una cura dell’anima e che il fine di tale cura consista nel produrre la vita felice[11]. Tutte le scuole dell’età ellenistica concordano nell’affermare che lo scopo del filosofare sia il raggiungimento della felicità[12]. In particolare, scrive Martha Nussbaum: “Per Epicurei e Scettici la centralità del fine etico, cioè il conseguimento di un certo genere di vita, è molto più ovvia di quanto non lo sia per gli Stoici. Ma per tutte e tre le scuole la filosofia consiste soprattutto nell’arte del vivere, e dedicarsi ad essa senza essere ancorati nell’impegno del buon vivere, risulta attività vuota e vana”[13].

È questa la concezione dalla quale prende le mosse Seneca, costituitosi medico dei mali dell’anima, che aiuta l’uomo a modificare le valutazioni che dà delle cose, attraverso un percorso di conoscenza. L’obiettivo è far mutare l’atteggiamento spontaneo dell’uomo rispetto ai valori prevalenti nel mondo circostante, per comprendere quali cose sono realmente beni e quali sono invece mali; infatti, il filosofo di Cordova sostiene che le malattie dell’anima consistono nel pensiero rivolto per ignoranza o intemperanza alle cose che sono mali, e le passioni provocano malattie nel caso vengano trascurate e si cronicizzino.

Nonostante la molteplicità dei contenuti espressi nella produzione letterale, teatrale, filosofica e oratoria da Seneca, è lecito chiedersi se tutto il suo pensiero si possa ricondurre ad un’idea di fondo, secondo il caustico aforisma di Bergson: “Un filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una cosa sola”[14]. E questa cosa la troviamo nelle Lettere a Lucilio:

“Ma qual è questo bene? Te lo dirò: un’anima libera, nobile, che sottomette le altre cose a sé, senza lasciarsi sottomettere da nessuna”[15].

La filosofia per Seneca non è un’arte popolare che possa essere facilmente esibita, ostentata e condivisa, ma un lungo esercizio interiore costituito da fatti più che da parole. Non è questa la sede per fare un compendio esaustivo della sua filosofia ma, cercando di rendere evidente al giudizio del lettore gli elementi caratterizzanti, seguo Giovanni Reale nel riportare il suo “credo supremo” espresso nelle Questioni naturali e consistente nel non cercare ciò che gli uomini hanno fatto nella loro storia, “bensì ciò che l’uomo deve fare per essere veramente uomo, e dunque felice”[16].

Le differenze con la spiritualità cristiana che emergono da questa sintesi sono tante, basti solo notare la centralità del messaggio di amore oblativo contenuto nel comandamento nuovo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15, 12) o alla finalità ultraterrena dell’agire umano chiaramente definita da Gesù Cristo: “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8, 35), e accostarle alla ricerca della felicità di questa vita come fine ultimo della filosofia del saggio.

Ma c’è un elemento di fondo all’origine di una sensazione che ho provato fin da ragazzo nel leggere Seneca e poi, senza ancora averla chiarita a me stesso, l’ho condivisa da adulto con altri partecipanti al nostro seminario, prima ancora di analizzarla e comprenderla nel suo senso di “ostacolo per una disposizione d’animo cristiana”. E mi è sembrato che tale aspetto emergesse come evidenza dalla riflessione su documenti e racconti che illustrano frammenti biografici, atteggiamenti e scelte nella vita pubblica e privata. Leggendo le testimonianze sulle vicende e le circostanze che hanno determinato, dopo la sua fortuna, la condanna a morte mediante suicidio, si coglie qualcosa in termini di appartenenza al mondo, inteso in senso giovanneo, che forse attiene alla peculiarità dello Zeitgeist, dello spirito del tempo e, in un certo senso, all’influenza su di lui della follia al potere.

Consideriamo qui solo gli eventi salienti che precedono il 62 d.C., l’annus horribilis di Seneca[17] che viveva alla corte del quinto imperatore romano, asceso al trono a soli diciassette anni: Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus, alla nascita Lucio Domizio Enobarbo, passato alla storia come Nerone[18].  

Nerone si era innamorato di Poppea, la bella e ambiziosa moglie del suo amico Salvio Ottone, che cercava di indurlo a ripudiare Ottavia, la consorte appena ventenne protetta dalla stessa madre dell’imperatore, Agrippina. Esistono versioni contrastanti di ciò che accadde fra madre e figlio[19], il fatto certo è che Nerone incarica il comandante di flotta Aniceto di uccidere Agrippina fingendo la morte in un naufragio. Il piano fallisce e la donna, pur ferita, si salva.

Nerone allora convoca Seneca e Burro, amico e sodale del filosofo, per aver consiglio sul da farsi e ottenere la complicità morale e politica di due personaggi rispettati dal popolo, per compiere il più orrendo dei crimini: il matricidio[20]. Tacito narra che Nerone “fuori di sé dalla paura grida che ella sarebbe giunta avida di vendetta” e che “Seneca si riprese per primo e, guardando Burro, gli chiese se si dovesse dare ai soldati l’ordine di ucciderla”[21].

A questo punto si ha quello che Giovanni Reale definisce “il periodo più incerto e confuso della vita di Seneca”[22], dopodiché si giunge agli avvenimenti ben documentati dell’anno 62.

Burro viene fatto uccidere da Nerone per avvelenamento, fingendo la somministrazione di una sostanza curativa di un “gonfiore di gola”; Seneca allora cerca di dimettersi per sfuggire alla morte e si offre di restituire all’imperatore tutti i beni da lui ricevuti, ma gli viene opposto un rifiuto. Al posto di Seneca e Burro è nominato Tigellino, un uomo senza scrupoli che si rende complice di tutti i crimini del sovrano per ottenere ricchezze e potere. In quei giorni furono trucidati Silla e Plauto. Nerone, per affrettare le nozze con Poppea, ripudiò Ottavia con l’accusa di sterilità, ma poi, non contento, decise di condannarla a morte.

Per poterla condannare inventò come capo di accusa che si era procurata degli aborti, dimenticando di averla dichiarata sterile, e poi aggiunse che aveva sedotto Aniceto. Così la ragazza appena ventenne, come ci ricorda Tacito, viene barbaramente uccisa: “… le incidono le vene delle gambe e delle braccia e, poiché il sangue agghiacciato dallo spavento goccia con troppa lentezza, la soffocano tra i vapori di un bagno caldissimo. Aggiungono anzi una crudeltà più atroce: la sua testa fu tagliata e portata a Roma, e Poppea volle vederla”[23].

Calpurnio Pisone organizzò e diresse una congiura per liberarsi del tiranno, ma un infiltrato denunciò il complotto e fece a Nerone il nome di Seneca, che fu condannato a morte. Il filosofo si difese sostenendo di non aver preso parte alla congiura ma, secondo numerosi storici, il complotto fu solo una montatura ordita dallo stesso imperatore per poterlo eliminare legalmente.

Esposti in estrema sintesi i fatti storici, ritorno alla mia sensazione circa l’uomo e a al suo scendere a patti con la propria coscienza. Non sapremo mai se solo per timore o anche per conservare i privilegi come volevano i suoi detrattori, ma un fatto è certo: i maggiori studiosi di Seneca dell’epoca recente sono severi con lui, nonostante un tentativo di difesa abbozzato da Concetto Marchesi. Giovanni Reale così si esprime: “In ogni caso, non ci sono dubbi: egli si è reso correo del matricidio deciso da Nerone”[24].

La capacità di rinuncia, il rigore stoico, l’onestà intellettuale, il desiderio di guarire i mali dell’anima di coloro che incontrava, non sono sufficienti a renderlo vicino alla sensibilità cristiana, perché Seneca non ha una concezione di contrapposizione inconciliabile tra il male e il bene, e considera il male una parte della natura dell’uomo con la quale tutti scendiamo a patti. Non c’è il peccato per lui, la morte dell’anima: il cristiano sbaglia per debolezza, ma chiede perdono a Dio al quale sente di dover rendere conto. Il percorso di crescita nella saggezza concepito da Seneca prevede un progressivo mutamento di mentalità e un’evoluzione del modo di sentire, con un cambiamento di atteggiamento nei confronti della vita e del prossimo, riducendo progressivamente i compromessi, ma solo allo scopo di evitare sofferenze psichiche in quel mondo al quale sente profondamente di appartenere.

Riflettendo su questo punto credo di aver compreso cosa manchi alla sensibilità di Seneca per essere accostata a quella cristiana: la purezza.

 

[continua]

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-17 aprile 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Cfr. Note e Notizie 06-03-21 Ritrovare nei segni le ragioni della bellezza, nel paragrafo “6”.

[2] Il padre della chiesa Gregorio di Nissa nel Perì Parthenías o De Virginitate, scritto nel 371 d.C., sovverte l’ordine di rappresentazione convenzionale del peccato originale con il corpo quale fomite della disobbedienza, spostando l’attenzione sulla psiche: nel paradiso terrestre “L’uomo era nudo, privo di vesti di pelle morta, guardava senza vergogna il volto di Dio” perché la sua coscienza era in continuità con quella del Signore. Non è il corpo in quanto tale l’origine del peccato, ma la carne (sarx) che desidera per sé e invade col suo desiderio una mente che si è già allontanata da Dio, trasgredendo l’ordine di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza. In altri termini, riporta alla sostanza della narrazione metaforica biblica del peccato di disobbedienza e superbia, consistente nell’arrogarsi l’arbitrio di giudicare indipendentemente dal volere divino e tradirlo per assecondare l’istinto. (Cfr. Note e Notizie 06-03-21 Ritrovare nei segni le ragioni della bellezza).

[3] Naturalmente mi riferisco a giudizi fondati sui principi elementari e mai discussi di ragione ed evidenza, oppure sul metro storico dell’intersoggettività condivisa prossima all’oggettività, consapevole di quanto sia di moda l’esercizio mediatico della delegittimazione di ogni parametro di giudizio. Infatti, in una realtà come quella attuale che non richiede di motivare la distruttività e spesso la assume come valore, si può sempre obiettare circa la concezione del giudicante e finire nel gioco logico della catena dei “giudici dei giudici” (o “critici dei critici”, nella suggestiva resa del greco antico), con un regresso potenzialmente infinito o in diallelo circolare.

[4] Ulisse è l’eroe che soffre nel cuore, secondo Omero, ossia che ha un cuore forte per resistere al dolore senza manifestarlo con espressioni che altererebbero la sua immagine presso gli altri (“lo stile è l’uomo”) fondamentale per i pagani.

[5] Si pensi, in proposito, al concetto di “conversione del cuore” secondo Sant’Agostino.

[6] Note e Notizie 10-04-21 Specchio della psiche e della civiltà.

[7] Note e Notizie 06-03-21 Ancora qualche parola sulle ragioni della bellezza.

[8] Cfr. Giovanni Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, p. 7, Bompiani, Milano 2004.

[9] Dopo aver descritto l’affascinante rito arcaico del Santuario di Trophonios a Lebadea, proponevo per l’epoca aurea questo esempio platonico.

[10] Platone, Carmide, 157 A-B, in Platone – tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2001.

[11] Epicuro, frammento 219 (tr. It. I. Ramelli), Bompiani, Milano 2002.

[12] Cfr. Giovanni Reale, op. cit., p. 17.

[13] Matha Nussbaum, Terapia del desiderio, teoria e pratica nell’etica ellenistica, p. 22, Vita e Pensiero, Milano 1998.

[14] Bergson, La pensée et le mouvant, p. 122, Paris 1934.

[15] Seneca, Lettere a Lucilio, 124, 11-12 in Tutte le Opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.

[16] Cfr. Giovanni Reale, op. cit., p. 166.

[17] Ricordiamo che, a trent’anni dalla morte di Gesù Cristo, i cristiani erano ancora poco conosciuti nel mondo romano e l’unica loro traccia scritta in quegli anni era il Vangelo di Matteo, di cui circolavano alcune copie in aramaico.

[18] Non è possibile, né serio azzardare diagnosi psichiatriche su tracce biografiche di personaggi storici, ma, se sono vere le testimonianze dell’epoca, la presenza di un grave disturbo mentale nel giovane imperatore è certa.

[19] La versione di Cluvio, ripresa da Tacito, secondo cui Agrippina volesse commettere un incesto seducendo il figlio per impedirgli di avere Poppea, sa troppo delle classiche calunnie diffuse dallo stesso Nerone per infangare e screditare le sue vittime.

[20] Ricordiamo che presso gli antichi i delitti mostruosi come questo potevano essere attribuiti alla volontà degli dei, come accade per Eutifrone, parricida che nel dialogo platonico incontra Socrate accusato di corrompere con le sue idee la gioventù. L’uccisore del padre, ricco e potente, viene assolto, mentre Socrate è condannato. Sarà solo grazie all’entrata della cultura cristiana nel diritto romano, con i Codici Giustinianei, che la responsabilità penale diventa individuale.

[21] Tacito, Annali, XIV 2-3 e 7, trad. di A. Resta Barrile, Zanichelli, Bologna 1986.

[22] Giovanni Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, p. 78, Bompiani, Milano 2004.

[23] Tacito, Annali, XIV 64, op. cit.

[24] Giovanni Reale, op. cit., p. 78.